Con sentenza n. 5911/18 la Corte di Cassazione ha ritenuto che la vendita di oggetti d’arte, secondo uno schema assimilabile all’emissione di “zero coupon”, possa rappresentare, al ricorrere di determinate condizioni, un’operazione di investimento finanziario: come nella fattispecie sottoposta all’attenzione della Suprema Corte, in presenza di una clausola che prevede – alla scadenza di un termine prestabilito – la possibilità per il cliente di retrocedere le opere d’arte acquistate, ad un prezzo superiore rispetto a quello originario di acquisto. Clausola che introduce un’opzione di vendita a rendimento certo nel contratto di acquisto, modificandone perciò la natura tale da configurare un vero e proprio contratto di investimento.
Il ragionamento della Cassazione fa leva sulla nozione di prodotto finanziario, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. u) TUF, che “comprende ogni conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore con un’aspettativa di profitto o di remunerazione, vale a dire di attesa di utilità a fronte delle disponibilità investite nell’intervallo determinato da un orizzonte temporale, e con un rischio”. In particolare, secondo la giurisprudenza, quest’ultimo va ravvisato nel c.d. “rischio emittente”, e cioè la possibilità che il venditore venga meno al patto di riacquisto. La sentenza fa dunque propria un’interpretazione estensiva della nozione di prodotto finanziario, idonea a ricomprendere fattispecie normalmente escluse (conf. Cass. n. 2736/2013).
Da ultimo, è stato affermato che non incide sulla natura finanziaria dell’operazione la circostanza per cui il contratto prevedesse il godimento del bene da parte del compratore/investitore, né l’inesistenza di un obbligo all’esercizio della retrocessione a favore dell’acquirente, trattandosi di meri patti accessori che non modificano i tratti dell’operazione così come interpretata dalla Corte.